Dal diario di una persona sofferente:
“Quando ti aggredisce se ne vanno le solite passioni dell’uomo, le parole stesse fuggono, il linguaggio ne esce distrutto, si annullano i progetti, tutto viene ridotto all’essenziale.”1
Quando le passioni cessano, le parole non hanno fiato, le fantasie si annullano e tutto viene ridotto all’essenziale si è presenti ad un evento di importanza universale.
Non ci si deve illudere che questo annullamento non sia conseguente ad uno stato di spossatezza profonda; il vero dolore azzera e mortifica a tal punto le nostre piccole illusioni, da renderci irriconoscibili a noi stessi. Ma dal dolore ci si può far trasformare profondamente, fino a realizzare una vera e propria rinascita esistenziale. Così continua quel diario:
“…ci sono ampi orizzonti, che nessuno potrà mai ammirare senza sfidare apertamente le dimensioni solite della vita (quelle date dalla forza e il vigore scaturente dalla salute); essi si aprono al di là di tutto ciò che prima sembravano gli ultimi confini… All’inizio è tutto amaro ed oscuro, ma poi l’occhio spazia in larghezza e profondità… in panorami così inediti da far gridare di meraviglia…”2
Una condizione di salute fisica e mentale gagliarda, coadiuvata da un felice stato sociale, molto difficilmente ci farà distogliere l’attenzione dalla ricerca del mero piacere, rendendoci sempre più assuefatti ai nostri sensi. Non che debba essere perciò preferito il dolore, ma cosa mai sarebbe un dio senza un dito che lo indica da un abisso di sofferenza? Lo sconcerto avviene quando apprendiamo che Dio è tutto presente anche in quello che per noi è lo stato massimo di dolore:
“Se salgo in Cielo, la tu sei, se scendo negli inferi, eccoti.”3
Nessuno scandalo dunque a vivere il dolore come e più proficuamente del piacere.
Non credo di sbagliare se dico che la nascita è un preludio alla morte e ciò che si interpone tra i due eventi è il tempo per un respiro. Sta solo a noi vivere quel respiro come uno sbadiglio o un ansimo di stupore per la meraviglia che è la vita; non dobbiamo perdere l’unica occasione che ci è data di annusare il mondo.
Il mio dolore, la mia paura.
“Mi illudevo che l’essere leggero mi potesse permettere di rimanere a galla sul mare delle cose, ma una falla ha inondato la stiva del mio essere e il mio io è affondato nelle profondità del dubbio e dell’incertezza.
Ora più di prima so che non è possibile trattenere la vita, ma è solo possibile governare il proprio essere in modo da farlo reggere agli urti più violenti.”
È necessario partire dal principio per cui il dolore che proviamo è sempre e solo il nostro dolore e di nessun altro, come il dolore dell’altro non è che uno stato assolutamente personale dell’altro. Possiamo provare pena per il dolore altrui, fino alla morte di crepacuore, ma questa non è che il risultato di un’elaborazione interna a noi stessi; un nostro film mentale.
“Se ora io, accanto ad un’altra persona, sto guardando il panorama con i suoi monti, fiumi e terra, penso che sia lui che io, stiamo osservando gli stessi monti, gli stessi fiumi, la stessa terra: eppure in realtà non è così. Io vedo dal mio angolo visuale, lui dal suo, ciascuno in base alla propria capacità visiva, secondo le condizioni della luce, secondo il proprio particolare stato d’animo. Insomma, anche se io posso vedere l’occhio di quella persona che guarda la montagna, il fiume, la terra, non posso in nessun modo vedere quel monte, quel fiume, quella terra che lui sta guardando.”4
Il punto privilegiato di visuale che abbiamo sul nostro dolore ci consente anche di risolverlo; dobbiamo in primis non farci più sorprendere dalla disperazione e dall’illusione che la vita sia un non senso o l’antitesi della morte.
“…la vita non comporta soltanto l’essere vivi, ma anche il morire. Fondamento dell’insegnamento di Sakyamuni è pensare la propria vita a partire dal fatto che la vita senz’altro muore. È importante vivere iniziando prima di tutto dalla tranquilla accettazione della morte.”5
Questa tranquilla accettazione della morte non può che emergere da una profonda realizzazione interiore e questa realizzazione interiore non può che derivare dalla consapevolezza che il dolore che mi pervade non proviene dall’esterno, ma è in germe e in potenza già dentro di me; è nato con me e morirà con me.
Ma la paura della morte può essere elusa anche senza questa consapevolezza?
Solo se questa paura non provenisse da dentro noi stessi, ma dato che essa è sposa al dolore e il dolore è in noi germoglio, non abbiamo modo di disfarcene voltando a lei lo sguardo o architettando un inganno. Ad ogni modo ciò che importa non è semplicemente far sparire la paura, ma superarla in intensità con la chiarezza di spirito che deriva dal nostro abbandonarci alla verità di nascita/morte (che sono entrambe parti della vita) e poi lasciare che ogni cosa abbia il suo decorso.
In vero la paura è la piccola morte:
“Quando la fine dell’umano esistere è ancora lontana,
prima ancora che il cessare di ogni male avvenga,
una morte minore si fa:
è la paura.
Essa soffoca la mente;
è l’inverno della ragione
e quando irrompe all’improvviso la notte incombe;
un buio si fa dappresso che neanche il sole fora.
Ma la paura non è sempre uguale:
alle volte secca la lingua, altre dirompe dalla gola
in sonore grida o urla silenziose,
ma quando tenue si infiltra nella coscienza,
taglia e lacera come di lama fatta.
Ridestiamo l’attenzione prima che sia tardi
e della paura facciamo un sogno,
che dilegui come bolle nell’aria
all’alba di un risveglio.”
La paura in fondo non è che il prodotto della tendenza dell’io egotico a rifiutare una vera comunione con il resto dell’esistenza:
“La paura sorge quando si interpreta il fatto di ciò che si è in termini di ricompensa e di punizione. La paura viene con la responsabilità e il desiderio di essere liberi di essa. C’è paura nel contrasto fra dolore e piacere. La paura esiste nel conflitto degli opposti. L’adorazione del successo genera la paura del fallimento. La paura è il processo della mente nella lotta del divenire… La paura è l’incertezza in cerca di sicurezza… Nella comunione c’è libertà, ma non nella paura.”6
La paura in fondo non è che una perdita di tempo:
“Non perdo tempo a temere la morte, o a godere la vita. Attendo l’ora a mo’ d’un mercenario che ha concluso l’opera.
Non perdo tempo a temere la morte, o a godere la vita. Attendo l’ora con mente acuta e vigilando.”7
1 p. Maurizio di Gesù bambino, L’ostrica perlacea -diario di una malattia-. Mimep Docete, padri Carmelitani.
2 p. Maurizio di Gesù bambino, L’ostrica perlacea -diario di una malattia-. Mimep Docete, padri Carmelitani.
3 Salmo 138,8.
4 Eihei Dōghen, il cammino religioso Bendōwa. Ed. Marietti, premessa al libro di Koho Watanabe pag.12.
5 Eihei Dōghen, il cammino religioso Bendōwa. Ed. Marietti, premessa al libro di Koho Watanabe pag.15.
6 Jiddu Krishnamurti, Meditazioni sul vivere. Ed. Mondadori pag.148.
7 Tratto da “Salmo di Revata”, così come viene citato in “ Ānanda K. Coomaraswamy, Buddha e la dottrina del buddhismo”. Luni Editrice pag.288.